Quella di Ibrahimovic però non è stata una vita facile, o almeno non sono stati facili gli inizi. Figlio di immigrati croati, la madre donna delle pulizie, un quartiere difficile, anzi un ghetto a far da sfondo ad un ragazzo che non sa obbedire e chinare la testa. Una storia che ricorda quella di altri campionissimi, Maradona ad esempio. Storie di un’infanzia difficile in un luogo difficilissimo dove il calcio rappresenta l’ancora di salvezza e il veicolo per un futuro migliore. Quel passato però rimane dentro, non può essere cancellato, e alcuni, anche ad anni di distanza, ne vengono risucchiati, altri riescono a sfuggirgli ma, come dice Ibra “si può togliere il ragazzo dal ghetto ma non il ghetto dal ragazzo”.

E quel ghetto è il quartiere Rosengarden di Malmoe, dove Zlatan è nato. E Ibra deve appunto calcio il riscatto da una vita che avrebbe potuto portarlo sulla via della delinquenza, com’è avvenuto a tanti suoi coetanei e amici di allora.

Non ha avuto, Ibra, una fanciullezza troppo tenera. Percosse, maltrattamenti, guerra, divorzio, situazione familiare esasperata, droga, alcolismo, indagini da parte delle autorità sociali, interventi della polizia. Di tutto questo Ibra fu spettatore e spesso subì le conseguenze. Scrive: “Spesso tornavo a casa con una fame da lupo e spalancavo il frigorifero, pensando: “Dio, Dio, fai che ci sia qualcosa da mangiare!”. Ma raramente c’era del cibo, nel periodo in cui Ibra stava con il padre: “Provavo un dolore che non dimenticherò mai”. Ma neanche i giorni trascorsi con la madre erano rose e fiori: “Ogni tanto mia madre perdeva il lume degli occhi e ci picchiava con il mestolo di legno e poteva accadere che il mestolo si rompesse. Allora dovevo andare a comprarne uno nuovo come se fosse stata colpa mia a farla picchiare così forte”. A scuola “assunsero un maestro supplementare per colpa mia e si parlava anche di mettermi in una classe per ritardati mentali. Volevano assegnarmi un marchio d’infamia e io mi sentivo come un marziano”.

Non mente ovviamente Ibra quando racconta la sua infanzia. Ma se qualcuno avesse dubbi in merito la cronaca di questi giorni è lì pronta a confermare le parole del ragazzo di Malmoe: “Il modo in cui si sono susseguiti gli ultimi omicidi ha sparso il terrore anche fra i pacifici cittadini, molti dei quali evitano di uscire nelle ore serali e si guardano bene dal frequentare quartieri pericolosi, come quello di Rosengarden (quello di Ibra appunto), dove le autorità svedesi hanno stipato gli immigrati, facendone un ghetto in cui la disoccupazione giovanile arriva al 30 per cento, contribuendo a far affluire gli adolescenti nelle schiere di coloro che vogliono arrangiarsi in qualche modo, non importa se violando la legge. E tutti si armano. Per proteggersi da eventuali aggressori, dicono. Ma in realtà per commettere omicidi, spesso su commissione”. Scriveva La Stampa in un’articolo del 7 gennaio 2012 dal titolo “Gang scatenate, a Malmoe è Far West”.

Voglio dedicare un pensiero anche a tutti i bambini, soprattutto a quelli che si sentono un po’ strani e diversi, che non vengono accettati fino in fondo, e che si fanno notare per i motivi sbagliati. Non essere uguali agli altri è ok. Continuate a credere in voi stessi, come insegna la mia storia alla fine malgrado tutto ciascuno può trovare la sua strada.

Questo è un pensiero che appunto dedica a tutti i bambini che sono nella sue stessa situazione di allora.


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